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Il critico letterario Prof. Prosperi analizza il romanzo rosenoir Schegge di memoria di Isabella Pil

  • Immagine del redattore: Redazione
    Redazione
  • 12 feb 2018
  • Tempo di lettura: 6 min


Il romanzo nasce dalla commistione di due generi: il giallo e il noir. Si potrebbe anche parlare di hard boiled se non fosse che il detective Baglioni non ha proprio il temperamento o l’atteggiamento da “duro” di un Sam Spade o di un Philip Marlowe. Pur affrontando il pericolo e pur rimanendo coinvolto in situazioni da brivido, egli non è impudente, freddo, irriverente come i modelli di Hammet e di Chandler: è piuttosto un ragazzo comune, di circa trent’anni, con il mutuo da pagare, che, dovendo in qualche modo campare, s’improvvisa detective perché non ha trovato nulla di meglio da fare. È sostanzialmente un precario nel lavoro e nella vita. Un anti-eroe. Poiché gli ingredienti del poliziesco si mescolano qui con elementi sadico-esoterici, contaminando in tal modo il tema dell’amore con quello della morte - cfr. la bellezza “intorbidata dalla morte” di cui parla Mario Praz ne La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica -, il romanzo si potrebbe anche definire un rosenoir.

La storia si svolge su due livelli temporali, in quanto le indagini di Baglioni (e della sua assistente Bea Lenci) sono, sì, ambientate in un prossimo futuro, tra il 1929 e il 2020, ma hanno un antefatto nella Londra vittoriana e dickensiana del 1830. La narrazione delle vicende si snoda pendolarmente sia per quanto riguarda lo spazio (oscillando tra Genova e Londra) sia per quanto concerne i tempi: in questo caso a fare da trait d’union è lo psichiatra John Irving, in virtù di un antenato omonimo imparentato con quello che per l’autrice è il “più grande romanziere di tutti i tempi”: Charles Dickens. Lo sfondo londinese, uggioso e cupo, deve molto all’autore de Le grandi speranze e di molti altri romanzi vittoriani e dal lontano ’800 si prolunga, mutatis mutandis, fino ai giorni nostri, senza soluzione di continuità; anzi, si può dire che, rispetto alle pagine dickensiane, i toni acquistino un surplus di inquietante tetraggine e di orrore, talché s’intuisce, allora, che il vero modello è un altro: il romanzo gotico del XVIII secolo con i suoi castelli tenebrosi, i suoi foschi sotterranei, i suoi ambienti sinistri. Dove, tra lugubri rituali e bizzarre architetture, si consumano atroci delitti. E dove naturalmente ricorre il tema demotico della fanciulla perseguitata. Qui le fanciulle perseguitate sono addirittura due: le sorelle Adam, vittime designate dei folli esperimenti alchemici che, di generazione in generazione, l’antica famiglia inglese Tennenwood va conducendo nelle labirintiche latebre del castello di Richmond, non a caso definito “quest’angolo di inferi”. Lord Gilbert Hildebrand Tennenwood, in particolare, enuncia a chiare lettere la filosofia del divin marchese de Sade, di cui si dichiara ipso facto seguace: “ogni cosa nell’Universo è subordinata alle leggi della natura. Gli uomini non sono in alcun modo tenuti in considerazione dagli elementi, che agiscono senza curarsi di creare, annientare, distruggere. Allora comesi può osare dire che un uomo che usi le sue facoltà per provvedere alla propria felicità causi lo sdegno della natura, se è dalla natura stessa che deriviamo questi impulsi? Come si può sostenere, come fanno alcuni, che l’uomo possa disporre della vita delle bestie ma non di quella dei suoi simili?”

Violenti e frequenti chiaroscuri valgono a creare una temperie di forte tensione: la luce, più che illuminare, ferisce o accieca: è una lama penetrante, una spada che talvolta buca o trafigge, talaltra spacca l’oscurità; in alternativa filtra malinconica o sgronda opaca, diffondendo ora un “tenue bagliore” ora un “fantasmale chiarore”. Incombente è il buio, l’ombra e la nebbia invadono spesso la scena; solo di quando in quando l’oscurità si dischiude in una penombra che impedisce all’occhio di mettere a fuoco gli ambienti o si anima di presenze misteriose, di rumori indistinti. La luce peraltro è non di rado fredda e un senso di gelo pervade frequentemente gli ambienti: solo a tratti l’atmosfera glaciale lascia il posto a un caldo asfissiante. Lo stesso paesaggio assume connotati espressionistici. Si pensi all’incipit del capitolo XVI, con le “ombre spoglie degli alberi”: “così lunghe che parevano ghermire i passanti con le loro dita contorte. / Dita che urlavano all’assassinio”. O a quanto si legge a pag. 32: “Ma ora tutto era oscurità silenziosa e pesante nebbia, che fondeva le geometrie della casa con il paesaggio spettrale di rami contorni, braccia scheletriche che nella notte invocavano giustizia”. Oppure all’orologio a pendolo, “quasi una presenza umana, oblungo come una bara di legno”, che nel capitolo VI scandisce l’ora. O ancora, a pag. 44, al “verso gracchiante di un corvo” che spezza il silenzio. Non è l’unico corvo che s’incontra ed ai corvi si accompagnano scarafaggi, “ragni di ogni razza”, topi, lumache: tutti animali, per così dire, perturbanti. Ma il corvo, il pendolo e il pozzo - che pure non manca - ci rimandano a Poe, ai suoi racconti del terrore. Un altro modello ben presente alla nostra autrice. Come dimostra anche il suo interesse per la psicologia, per i meccanismi della memoria, per le cause e gli effetti dei traumi, delle rimozioni, per gli inconfessabili sensi di colpa e gli incubi che ne derivano.

Su tali deragliamenti della mente e sui connessi disturbi, così come sui temi dello sdoppiamento e dell’alterazione della personalità, già scandagliati dalle geniali penne di Poe e di Stevenson, Isabella Pileri Pavesio torna ora a indagare alla luce degli apporti forniti dalla psicanalisi e dei moderni studi neuroscientifici. Un pensiero del premio Nobel Susumu Tonegawa fa coppia, in limine, con un altro di Emil Cioran sulla funzione della memoria. Argomenti, questi, di indubbia gravità, ma qui assunti, più che altro, come spunti o come ingredienti della narrazione. Come pretesti, verrebbe da dire. O come elementi di un gioco. In effetti appare per lo meno strano che una giovane ragazza, per ripristinare l’integrità della sua memoria andata in frantumi, si rivolga ad uno psichiatra di fama, ma insidiato, a sua volta, da una forma di amnesia in progress, sempre più preoccupante. La situazione di partenza è dunque paradossale e ci rimanda al proverbio evangelico: Medice, cura te ipsum (Lc 4,23). Ancor più paradossale se teniamo presente che la vittima, forse senza saperlo, si affida al potenziale aguzzino, cui l’accomuna peraltro una profonda sofferenza mentale che si traduce in incubi devastanti ovvero in schegge acuminate di ricordi, che riaffiorano in rapidi e folgoranti flash-backs: “Come schegge di uno specchio che si è rotto”.

E mentre Baglioni, coadiuvato dall’amica Bea, procede, di peripezia in peripezia, ma guidato da un certo fiuto investigativo, nella sua perigliosa indagine professionale, anche lo psichiatra oppresso da oscuri sensi di colpa e la sua giovane paziente smemorata intraprendono un cammino che, seduta dopo seduta, attraverso la tecnica dell’ipnosi lei, attraverso una rischiosa operazione lui, consentirà loro di recuperare la sanità. L’anamnesi parte da lontano, come si è detto, perché lontana nel tempo è l’origine del male e solo seguendo, appunto, i sentieri smarriti della memoria di John Irving è possibile risalire, per li rami, alla radice del problema. Solo alla fine, però, si scoprirà che le sorelle Adam, date per scomparse, in realtà sono vive e si scoprirà nel contempo chi, con una lettera anonima e l’invio di una distale di mignolo femminile, ha commissionato all’agenzia investigativa Perrotta l’indagine da cui ha preso avvio il romanzo.

Se però la soluzione del caso approda, per quanto possibile, ad un lieto fine per alcuni, chiudendo qui la loro storia, per altri personaggi, vale a dire per Baglioni e per Bea, si prospetta un ritorno alle angustie di sempre, anzi a vicende che sembravano definitivamente esaurite. Se Baglioni - come già abbiamo detto -, pur senza essere un detective imbranato alla Martin Soap o alla Jacques Clouseau, è un anti-eroe o, meglio, uno di quegli “eroi senza naturalezza e senza identità” di cui parlava Robbe-Grillet, costretti ad arrancare penosamente per sopravvivere, sempre in affanno, in una società non proprio inclusiva, Bea ne è la versione femminile. Forse ancor più frustrata di lui, alle prese con una relazione sentimentale che non la soddisfa e che, cammin facendo, si sgretola, la donna porta nel romanzo, tra i “nobili” e “classici” ingredienti del genere, un tocco di più credibile minimalismo o, se vogliamo, di normale e prosaica quotidianità. Al punto che la frusta tematica del noir, con le sue regole e i suoi motivi convenzionali, viene così attualizzata e rivitalizzata, portando, non senza ironia, l’aulico della fantasia a cozzare con la prosa della vita ordinaria.

 
 
 

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